domenica 29 settembre 2013

La fine di Lost. Perchè io sono uno a cui piace stare sempre sul pezzo.



In una serata uggiosa e calda, mentre tutta Bologna assapora gli ultimi scampoli d’ estate e un altro governo se ne va, mi capita di scoprire una cosa assurda e del tutto impensabile: la gente non ha capito un cazzo della fine di Lost!
Parlando con amici delle cose più importanti accadute negli ultimi 30 anni –tra cui, in ordine sparso, la morte di Joe Strummer, la condanna a Berlusconi e le Coppe Campioni della Virtus- si comincia a rimembrare i tempi eroici in cui ci si asserragliava in casa, si staccavano i telefoni, si spegnevano i computer, si stappavano gli alcolici e ci si sifonava 14 puntate consecutive di Lost, saltando i pasti e facendo pipì nel vaso del ficus benjamin che sta di fianco al divano (scusa amore).
Poi quei tempi finirono e per alcuni cominciò l’era villana del “distacco intellettuale”, quando ai party era di moda parlarne con tono amareggiato da grande critico, guardando l’orizzonte con sapienza e minimizzando la valenza cultural-spettacolare della serie, come se fosse addirittura esistito qualcosa di più bello al mondo.
Sciocchezze.
Ora, lo shock.
Svariati tossicodipendenti non pentiti e mai critici come me mi dicono, con birra in mano ed occhio che punta pericolosamente l’orizzonte, che l’isola era il Purgatorio.
Io tento un approccio conciliante: “Cioè, nel senso che ritieni che l’avventura loro occorsa avesse una valenza purificatrice… una redenzione per poter proseguire a vivere...ma metaforica...essendo loro vivi…”
“No no, nel senso che sono morti”
“Pardon?”
“Sveglia capra! Sono tutti morti nella caduta dell’aereo e l’isola è il Purgatorio da cui si ritroveranno alla fine, in chiesa, per andare tutti in Paradiso”
“…”
“Coglione”
“Ottimo. Oh, guarda com’è tardi!! Ci si vede eh…Ciao”
Poi, camminando nell’uggia dell’estate che decade, mi ricostruisco in testa la mia fine di Lost, che in fondo è ricostruirsi in testa tutto Lost, con la modestia di chi ritiene che quella e solo quella è l’unica spiegazione possibile e tutti gli altri non capiscono un cazzo.
Primo concetto.
L’isola è vera, esiste nel mondo fisico e nessuno è morto.
I sopravvissuti all’incidente aereo sono ciò che sembrano: sopravvissuti a un incidente aereo.
Questo secondo me si capisce dall’analisi spicciola dei tempi della narrazione.
Ovvero.
Per 5 serie tutto si svolge in maniera abbastanza semplice da decodificare, esistono cioè tre piani temporali che si intersecano: il “tempo dell’isola”, che è sempre il presente della narrazione, sia esso il tempo della caduta dell’aereo, il futuro del loro ritorno dopo esser riusciti ad andarsene o i vari passati in cui finiscono dentro; poi ci sono i flashback “in continente”, cioè le loro vite nel mondo prima dell’incidente, e i flashforward “in continente”, cioè le loro vite nel mondo dopo il ritorno dall’isola (per capirci, il tempo poco esplorato di quando Jack e Lentiggini stanno insieme).
Questi in sostanza sono i “tre tempi” delle prime cinque serie di Lost.
Chiaro? Boh, speriamo.
Poi arriva la sesta serie.
Ecco, per prima cosa buttiamo via le prime 10 puntate che fanno schifo al cazzo. Facciamo finta di non aver mai visto quel coreano-giappo-cino-vietnamita che si atteggia a Pai Mei e quell’altro fricchettone che vorrebbe essere Dennis Hopper in Apocalypse Now. Dopo averlo fatto scopriamo che qui c’è un altro piano temporale misterioso, un “flashx”, in cui Desmond risveglia tutti quanti e li porta in chiesa, dove belli sereni andranno in Paradiso.
Non sappiamo quand’è, ma sembra un futuro, perché tutti hanno dimenticato, e dimentichi solo ciò che sai e quindi che hai già vissuto.
Bene, perché da questo quarto piano temporale x dovrebbe conseguire che l’isola è il Purgatorio?
Perché dovrebbero essere tutti già morti sull’isola, se noi vediamo tutti quanti “morire sull’isola”?
E morire in tempi diversi… Charlie muore subito, Jack alla fine del “tempo del ritorno”, Ugo invece muore sessant’anni dopo.
Perché dovrebbero essere già morti, finire su un’isola Purgatorio dove morire di nuovo?
Non è più ovvio e logico pensarla come segue?
L’isola è nel mondo reale, è il tappo che protegge il mondo dal male (che per chi non l’ha mai visto sembra un po’ un ossimoro, ma d’altronde nella vita non si può parlare con tutti, figuriamoci con chi non ha mai visto Lost). Tutti sono sopravvissuti all’incidente aereo e vivono la loro vita lì, reale, concreta, tangibile, poi tornano nel mondo, poi tornano lì, vanno avanti e indietro nel tempo ma sono sempre vivi. Il che è dimostrato da un fatto incontrovertibile: muoiono.
Come diceva Marcello Marchesi: “L’importante è che la morte ci trovi vivi”
Poi, una volta morti sull’isola, cioè nel mondo reale, le loro anime finiscono nel Purgatorio, il limbo del flashx in cui Desmond li risveglia per portarli in Paradiso. E’ un limbo atemporale, o del futuro, un luogo delle anime in cui ci sono sia quelli morti subito che quelli morti 60 anni dopo, come Ugo.
Oltre all’analisi dei tempi, che come visto esclude l’ipotesi isola-Purgatorio, c’è poi una blanda analisi tematica di base: che c’entra il Purgatorio con il “tappo del male” che sappiamo essere l’isola?
Sono proprio due cose che non c’entrano nulla, due campi semantici diversi, due aree distinte della narrazione, non sovrapponibili. Insomma, non c’azzeccano niente.
Questo è il mio Lost.
Che poi vale come il Lost di altri che l'hanno visto in tutt'altra maniera, e se ne hanno voglia spero me lo racconteranno.
Ma si sa che il bello di ste storie, dai contorni un po’ sfumati e dai tempi che se ne vanno, è anche il poter guardare l’orizzonte e dire:
“Io ho capito Lost, e tu non hai capito un cazzo”

venerdì 27 settembre 2013

Ci sono Barilla, una famiglia gay, un elettricista e un negro...



La questione Barilla è ormai stucchevole come un piatto di spaghetti cotto venti minuti, ma mi pare molto interessante perché indicativa di un dibattito non tanto nel paese (purtroppo) ma personale, interno ad ognuno di noi. Proverò a spiegarmi con la quasi certezza di non riuscirci bene.
Ieri si sono avute due reazioni al messaggio di Barilla, fondamentalmente riconducibili al “diritto di pubblicizzare come vuole ciò che è suo” e al “non diritto di discriminare”. Mi spiegherò meglio con due esempi:
I primi, quelli che dicono che si è esagerato con le reazioni, dicono: “se avesse detto ‘non farò mai uno spot con gli elettricisti’ non si sarebbe arrabbiato nessuno”.
Sembra giusto.
I secondi ribattono: “Se avesse detto ‘non farò mai uno spot con i negri’ vi sareste arrabbiati tutti”.
Oh cazzo, sembra giusto anche così.
Infatti, posta così la questione, mi pare evidente che abbiano ragione entrambi. Cioè, al netto dell’atteggiamento del Barillone dalla chioma fluente, del sottinteso, della malizia, del para-fascismo e del bel capitalismo che ci fa o non ci fa tremare i cuor, questo è un pareggio logico da cui non se ne esce.
Ma perché è così?
Perché la “famiglia gay” non ha, dentro molti di noi se non tutti, una nitidezza di valore tale da renderla naturale e scontata come un elettricista o come un nero.  Non è un “chissenefrega etico” come un elettricista e non è una categoria protetta come una persona di colore, o un ebreo, o un handicappato, (o un elettore di sinistra italiano).
Non sto dicendo che sia giusto così, sto rilevando quello che mi sembra un problema, anzi il problema. La famiglia gay non è ancora un assoluto indiscutibile come gli uni o come gli altri.
Attenzione: sto parlando di “famiglia”, perché qui sta, credo, il dubbio interno alla pancia della gente che ancora non fa spostare chiaramente di qua o di là la questione. Non è chiaramente il diritto all’amore, e al matrimonio, il punto vero, quello è negato davvero solo dai fascisti o dai papaboys, ma la pancia della nazione non lo respinge più. E’ l’accettazione del fatto che una coppia gay possa avere figli il punto che (non) emerge da ieri. E’ quello il dubbio che la gente non ha ancora sciolto. Il dibattito taciuto dentro di noi sta qua: nella domanda “E’ giusto che un bambino cresca con due genitori dello stesso sesso?”. Io confesso che non lo so, ammetto di non avere sufficienti strumenti a mia disposizione per capire, sicuramente per mia colpa che non mi sono sbattuto a sufficienza per averli, ma è così. Credo anche che in tanti dicano in pubblico che è giusto, perché fa tanto “politically correct”, poi in privato non ne sono più tanto sicuri. Così come, spero, molti che si proclamano del tutto contrari possono pure cambiare idea, se gli presenti argomenti convincenti. Non so, ma vorrei sapere meglio, questo è certo e doveroso. Però il senso del casino di ieri mi pare questo, il tran tran creato dalle dichiarazioni di Barilla ha svelato questo nervo scoperto della società. E gridare all’omofobo o accanirsi contro un presunto vittimismo gay non sposta di una virgola la questione.

giovedì 26 settembre 2013

Considerazioni sporadiche e inattuali di uno che camminava per Bologna senza pensare ai cazzi suoi



Se cammini per quella città che solo gli sprovveduti potrebbero non chiamare Bologna, può capitare che noti alcuni piccoli dettagli sulle persone e sulla convivenza civile di cui non importa assolutamente a nessuno.
Con ragione, tra l’altro.
E’ però importante, a mio avviso, fermarsi ogni tanto e ragionare su quello che solo gli incauti potrebbero non chiamare “felsinean way of life”, e che sicuramente è chiamato in cotal guisa da una categoria di persone alla quale mi pregio di appartenere.
I pirla.
Se camminando per esempio in via Andrea Costa oltrepassi il viale ed entri in via del Pratello, oltre che rimpiangere il profumo dei tigli che sa celare con voluttà l’olezzo lercioso delle auto, bestemmierai per il dolore ai piedi che provoca quel lastricato che solo gli assessori potrebbero non chiamare sassi di merda.
Che era almeno dall’ultima volta che passavo per Piazza Santo Stefano che non provavo un dolore così.
Ma stoico proseguo con orgoglioso petto e il cipiglio dei forti.
Pesto una merda.
E non voglio con questo suggerire che in Pratello vi siano più deiezioni canine che altrove, anzi. Volevo solo scrivere che proseguo con orgoglioso petto, il cipiglio dei forti e le palle che mi girano.
Sbuco sul passaggio pedonale all’incrocio tra via Marconi e via Ugo Bassi, che per me resta il posto con più gnocca di tutta Bologna.
Ho visto autobus saltare tre verdi consecutivi per guardare il paesaggio e umarell in bici lamentarsi perché se l’autobus non parte loro non vedono bene le gnocche.
Dopo aver attraversato otto volte avanti e indietro le strisce, entro in via Ugo Bassi.
Qui si possono fare alcune considerazioni sociologiche: le camicie col collo alto e le scarpe con la punta lunga mi sembrano in calo.
Bene.
I vestiti da barbone sono invece in crescita.
Un osservatore sgamato potrebbe suggerire che il trend è legato al fatto che ci sono più barboni, mentre un osservatore politicizzato noterebbe che quasi tutti i barboni sono stranieri e questo è un chiaro indice del fatto che gli italiani hanno una gran puzza sotto il naso perché si rifiutano di fare i lavori più umili.
Tipo il barbone.
Mi sembrano in numero e in quoziente di aggressività stabili quelli che ti vogliono far firmare per la riforma della giustizia, contro la fame nel mondo, contro le droghe e per le chiese metodistiche universali.
Io su queste posizioni ho le idee molto chiare: riformiamo la fame nel mondo partendo dai missionari cristiani che mandiamo in Africa a zappare mentre le droghe ce le teniamo noi.
Punto.
Su via Ugo Bassi mi paiono un pochino in crescita quelli che ti mollano i volantini, i cosi…com’è che si chiamano…gli…ah sì…
Gli scassacazzo.
Che vorrei sapere se il ritorno commerciale di ognuno di quei volantini ripaga il costo della carta usata per stamparlo e il frullamento delle mie palle ogni volta che me ne sbatti uno sotto il naso, oh scassacazzo che non sei altro.
Giunto in piazza mi si palesa davanti agli occhi una cosa molto bella: la piazza.
Che di sera ha quella tonalità tipicamente medievale che solo le luci elettriche gialle sanno darti.
Io entro in Sala Borsa, la quale è quel luogo centenario nel quale si svolge il lavoro più bazza che Bologna abbia mai riscontrato nella sua storia millenaria: la “guardia giurata che intorta le sbarbe all’ingresso di Sala Borsa”.
Un mestiere delizioso con un solo, enorme rischio: che il tuo collega sia un gran rompiballe.
E viceversa.
Dopo aver ammirato i pavimenti a vetro, i delicati camminamenti, i ricchi colonnati e un po’ di gnocca, rammento che è veramente da sciocchi stare in Sala Borsa se non si ha nulla da fare in Sala Borsa. Così me ne vado.
Attraverso la piazza ricordando i bei tempi andati in cui si dava il becchime ai piccioni senza paura che ti trasmettessero l’epatite con uno sguardo, ammiro la facciata di San Petronio, che bisogna riconoscere che ci sono dei fotografi davvero molto bravi in giro, e mi infilo nel Quadrilatero.
E’ stretto.
Molto stretto.
Talmente stretto che quando il pesce è molto fresco ti puoi ritrovare un’orata che ti salta in grembo, un polipo che ti guizza in tasca e un gamberone che ti zompa in…
Poi ci sono anche tante belle bancarelle con la frutta e la verdura.
Quando sono nel Quadrilatero vengo colto da un dubbio morale: vado a comprare un libro che non leggerò mai all’Ambasciatori o da Feltrinelli?
Compro tanti libri io.
Molti di più di quelli che riesco a leggere, perché ho gli occhi più grandi degli occhi.
Ma da quando mi faccio prendere dai dubbi morali ho un po’ smesso, perché cammino tutto tormentato, penso, ripenso e penso ancora finché sono in Piazza Santo Stefano e allora non penso più ai libri.
Penso solo a bestemmiare per via di quei sassi di merda.
Quando sei in Piazza Santo Stefano, dopo che hai fatto le solite tre cose -che nell’ordine sono: dirsi “oh quanto è bella!”, spiegare a qualcuno che lì di fianco ci abita Prodi, guardare la gnocca- te ne vai da Piazza Santo Stefano.
A quel punto puoi andare dritto, e se hai buone gambe e molta pazienza arrivi al mare, oppure torni indietro, e passando per Piazza della Mercanzia ti chiedi se rappresentino meglio Bologna i bimbi-minkia che stanno lì tutto il giorno a non fare un cazzo oppure i fighetti che stanno lì tutto il giorno a sollevare le patatine.
E allora mi infilo nel ghetto, cercando di non guardare Feltrinelli per non farmi riassalire dai dubbi di cui sopra.
Qua mi perdo.
Intrichi e vicoli e calli e stradine e viottoli e…
Pesto un’altra merda.
E non voglio con questo suggerire che nel ghetto vi siano almeno le stesse deiezioni canine che in Pratello. No, stavolta la pesto apposta, anzi non c’era e ce l’ho messa io apposta per pestarla, perché non sapevo più come uscire da questa minchiata che sto scrivendo.
Così mi fermo in qualche bar, probabilmente da Sam che non si chiama più da Sam, bevo 18 birre, sollevo le patatine, guardo la gente passare, mi pulisco le scarpe luride e penso che magari un’altra volta, girando qua e là senza aver nulla da fare, considererò l’eventualità remota e mai banale di farmi in toto i cazzi miei.
Oppure guardo meglio dove metto i piedi.
E mi infilo da Feltrinelli.

sabato 21 settembre 2013

Bologna stronza e meravigliosa città




Questa mia città che di nome fa Bologna e di indirizzo non so
sa essere pure abbastanza bella, quando pretese non ha.
Se la cammini di notte, nascosto tra i secoli
ti fa sentire come un gatto,
importante senza sapere perché.
E ti avvolge coi sussurri del tempo
di case medievali carezzate di giallo,
portici umidi di antichi slogan
e piazze stanche che non servono più.
Allora ascolti il silenzio
piatto e fresco e saporoso di vento.
Ascolti la notte
sazia di kebab e avara di passione
e ascolti i pensieri nel vino,
saggi e ignoranti come la mia voglia
di te, Bologna stronza e meravigliosa città.
Perché ancora oggi,
dopo tutto quel che non ci siam dati mai
mi spingi a parole che non ho
invece che lasciarmi solo a bestemmiare
ad amare e camminare,
camminare nelle notti d’estate,
camminare senza smettere più.