giovedì 27 marzo 2014

Scusate il ritardo. Intervista allo studente più fuori corso di tutti i tempi




Signor Poli, possiamo dunque dire “alla buon ora”?
Lei è partito malissimo.

Ah… chiedo scusa. Ricominciamo. Lei sta per laurearsi ora dopo tanti anni dalla sua iscrizione. Si vocifera persino che il suo potrebbe essere il record di anni fuori corso. Titolo della tesi?
“Mi son distratto un attimo”.

Parla dei fenomeni di distrazione di massa?
No, parla di me che sono un fenomeno a distrarmi da solo.

Si laurea in Storia Contemporanea, giusto?
Non è esatto. Io tanti anni fa, appena uscito dal liceo, mi iscrissi a Storia Contemporanea, ma poi il tempo è passato e col ricalcolo è diventata Storia Moderna. In realtà potevo aspettare ancora un pochino e sarei un medievista, titolo accademico eccelso e qualifica molto intrigante da sfoggiare ai cocktail party.

Che cosa è cambiato dai tempi della sua iscrizione all’Università?
Mah, è passato così tanto tempo…All’epoca non c’erano le macchinette automatiche per le bevande, la droga costava meno e gli autobus non parlavano. Devo però smentire una diceria: non arrivavano in orario neanche allora. 

Forse è cambiato lei?
Anche sua sorella suppongo non sia più la stessa di vent’anni fa, per non parlare di quella brava donna di sua madre, di cui conservo un carissimo ricordo.

Ahem…torniamo a parlare di argomenti prettamente accademici. Quali erano i suoi interessi al momento dell’iscrizione all’Università?
All’epoca sognavo di laurearmi con una tesi sulle avanguardie che si erano appena affacciate all’attenzione del mondo: il futurismo, il cubismo, il bahuahus. Poi c’è stato un po’ di casino, la gente ha iniziato a spararsi, qualcuno è morto, c’è stato il femminismo, la rivoluzione digitale e la scomparsa del totocalcio…insomma le prospettive sono cambiate. Pensi che oggi si fa addirittura fatica a trovare un vespasiano per pisciare.

Possiamo chiamarlo “l’ineluttabile e indifferibile scorrere del tempo”?
Mi pare una definizione troppo lunga e complessa. Preferisco chiamarlo Mario.

Deve qualcosa all’Università di Bologna?
Eh no basta! Ho pagato tutto, guardi, ho anche i cedolini.

Intendevo in termini morali.
L’Università mi ha insegnato tanto. Per esempio se non avessi mai frequentato le leggendarie lezioni di Guido Guglielmi sulle "Operette Morali" di Leopardi in via Centotrecento non avrei mai saputo che in quella via si mangia un kebab straordinario. Se invece vogliamo intendere un sapere più convenzionale, ammetto che prima di iscrivermi pensavo che le "Operette morali" fossero di Gianni Morandi, che Hegel fosse il terzino dello Shalke 04, Kant un verbo ferrarese e Francis Bacon un produttore di pancetta.

Dalle sue parole sembra trasparire un certo disprezzo per l’Alma Mater.
Tutt’altro. Trovo che abbia delle scale molto eleganti e un livello culturale elevatissimo. Ma esiste la possibilità che questa mia ultima affermazione sia del tutto infondata, non avendo io alcuna capacità di valutare i livelli culturali altrui. Spero che di questa mia dichiarazione benevola e gratuita si tenga conto in sede di valutazione della mia tesi.

In conclusione sente di voler ringraziare qualcuno?
Sicuramente un pensiero va ai miei genitori, senza il loro sostegno morale mi sarei fermato alla terza media e senza il contributo economico non sarei stato in grado di pagarmi gli studi. Lei capisce, son costati come un attico davanti alle Due Torri.

Riflessione finale?
A 23 anni andai per la prima volta sulla Torre Asinelli, sfidando antiche e stupide leggende che narrano che uno studente che si azzarda a farlo poi non si laurea. Gli accadimenti degli anni successivi mi hanno portato ad avere un rispetto incredibile per le antiche e stupide leggende, tanto da aver più volte pensato di suicidarmi buttandomi giù dal crescentone di Piazza Maggiore. Domani mi laureo e questo evento che oserei definire epocale può far luce su un paio di cose: la prima è che non bisogna avere una fiducia incrollabile nelle antiche e stupide leggende; la seconda è che ora si sarà capito perché, lungo tutti gli insopportabili minuti di questa tediosa intervista e fino a domani, la mia mano destra non ha lasciato e non lascerà per un solo istante i miei coglioni. 

Cosa farà ora?
Mi prendo una breve vacanza poi mi iscriverò a Storia Medievale, con l’obiettivo di laurearmi fra un po’ di tempo in Storia Antica.

Grazie per il tempo che ci ha dedicato.
Può dire la stessa cosa da parte mia e di tutta la mia vecchia squadra di basket a sua mamma.
 

sabato 8 marzo 2014

Cassapanca




Una fitta nebbia, presagio di funesti accadimenti, avvolgeva l’entrata di un sordido locale dell’entroterra vercellese, noto alle cronache per via di alcune risse che ravvivavano l’ambiente quando la serata volgeva al temine: il Rick’s Bar. Il proprietario Rick Blaine era un ex pugile ebreo con un trascorso nel Mossad, da cui venne espulso dopo aver dichiarato alla stampa che la più grande invenzione del ventesimo secolo fu il kebab. In quei lontani giorni di ottobre in cui tutto accadde, Rick non aveva più il vigore degli anni belli, essendosi ormai ridotto ad alcolista cronico, settore amareggiati, perché passava le giornate a bere Amaretto di Saronno e a ricordare i tempi lontani di una travolgente storia d’amore.
Si era a Parigi, negli anni bui della Seconda Guerra Mondiale, e Rick gestiva da una mansardina di Montmartre tutto il mercato nero di Pechino. Senza telefono. Un drago, ne converrete.
Quando conobbe la bella Elsa, fiore di donna cresciuta nelle ristrettezze economiche del ramo buono dei Rotschild, tutto quel mondo che cadeva a pezzi attorno a loro sembrò tingersi di rosa. Era amore quello, vecchio Rick, era l’amore che non avresti mai dovuto trascurare! Per cosa poi? Per andare a trattare una partita clandestina di mele golden a Predazzo? Che oltretutto – rammenti? - arrivarono tutte bacate? Potrai mai perdonartelo, vecchio Rick? Potrai mai dimenticare quella colpa che segnò il tuo futuro e ti condannò alla sofferenza eterna?
No, Rick non dimenticò.
Le cose finirono molto male, perché quando tornò da quell’impegno di lavoro, lordo del sangue del grossista che dovette giocoforza picchiare, Elsa non c’era più. Svanita come una nuvola di rugiada esposta al sole nei mattini di luglio, come un petalo di rosa sotto la pioggia nei pomeriggi di settembre, come una banconota da dieci euro tenuta in vista nelle serate di tutti i mesi dell’anno.
Con la scomparsa di Elsa, quel tenero mondo color pastello ripiombò nella notte più buia.
Tanti anni dopo, il locale di Rick aveva la stessa densità del suo cuore gonfio di nostalgia. Ai tavoli si susseguivano clienti loschi come gli scudetti della Juventus: rapinatori, spacciatori, truffatori, camorristi, persino qualche assessore della giunta Formigoni.
Ma un giorno la porta del bar si aprì.
Il fatto in sé non era sconvolgente, essendo che in tutti i locali del mondo capita che, prima o poi, la porta si apra, ma straordinaria fu l’apparizione che si parò dinnanzi agli occhi della clientela tutta. Sì, era proprio lei, affascinante, misteriosa e del tutto indifferente al trascorrere del tempo: una nebbia della Madonna! Spessa come una coltre di ovatta che avvolge il mondo con le sue spire infinite che paiono giungere da un’altra dimensione spazio-temporale per nascondere la realtà alla vista dei comuni mortali che come angeli sperduti si aggirano su queste lande misteriose intrise di sentore malinconico al fine di una diversa immaginazione macro-evolutiva che simboleggi una nuova era nel percorso dell’umanità verso un futuro condiviso e più fashion (scusate, mi davano 30 euro se finivo nel Guinness per la metafora più lunga di tutti i tempi). Beh insomma…la nebbia invase il bar. Passò un’ora, ne passarono due, la gente iniziò a sparire perché nel locale c’erano molti tossici a cui piace farsi di nebbia, poi finalmente qualcuno aprì la finestra e, mentre la coltre grigiastra cominciò a diradarsi, eccola…la vera apparizione: la bella Elsa!
Beh, oddio… “bella”. Diciamo un tipo.
Poteva infatti a prima vista sembrare che col passare degli anni la pulzella si fosse un tantinello sciupata, ma non furono certo i 120 chili, il triplo mento, la settima di reggiseno, le gambe pelose e un pungente sentore di aglio a nascondere il suo fascino prorompente. Anche se parvero riuscirci molto bene.
Come era usa fare un tempo, Elsa si avvicinò al pianista e gli sussurrò quella frase immortale, che da quel momento divenne leggenda e fece piangere gli innamorati di tutto il mondo: “Sai cos’ha fatto il Milan, Sam?”.
Ma il pianista Sam, diminutivo di Samuele Lo Turco, era un po’ duro d’orecchi e capì “Suonala ancora Sam”, così le sue dita nodose si adagiarono sui tasti, pronte ad attaccare per la sesta volta consecutiva Storia d’amore, di Adriano Celentano.
“Tu non sai cos’ho fatto quel giorno, quando io la picchiaii…”, cantava il ruvido Sam, adattando il testo ai gusti del pubblico in sala. Fu un’immediata esplosione di sensi, di languori e di colpi di pistola, perché c’era gente lì dentro che quando si stanca di una canzone mica ti manda le raccomandate, ti spara.
Rick, che si era perso le altre cinque esecuzioni perché ascoltava il Milan alla radio, si scosse e riconobbe la canzone dei suoi giorni felici. Alzando lo sguardo dalle parole crociate crittografate della Settimana Enigmistica, scorse Elsa in un remoto angolo del bar, intenta per via del pudore a nascondersi dietro tre camionisti, una campana del vetro, Giuliano Ferrara, Mazinga e un cerino. Invano, nonostante il cerino. Rick si alzò e le corse incontro commosso, aprì le braccia per stringerla, poi valutò la questione e le aprì ancora, poi valutò ancora una volta e le spalancò il più possibile, raggiungendo l’apertura alare di un condor grigio delle Montagne Rocciose…ma fu costretto a desistere e si limitò a stringere la mano a quel fiore di donna che non vedeva da tanto, tanto tempo.
Con occhi gonfi d’amor perduto, Rick miagolò le ardite parole di un tempo:
“Carbonara, baby?”
“Con cipolla, boby”. E ruttò pure, la maledetta cinghiala.
“Sembraaaava un haalibut!”, cantava il grande Adriano.
Tutto come ai vecchi tempi.
Ma il destino non era propizio per gli ingenui sogni di Rick: Elsa infatti aveva già destinato ad altri quel corpo che sembrava gridare: “Peccato! Peccato!! Peccato che sei una scrofona, che se ti mettessi un po’ a dieta una botta te la si darebbe pure”. Si era infatti sposata con un certo Victor Lazlo, uomo duro e insensibile al dolore, come si evinceva dalla sua decennale professione di collaudatore frontale di chiodi. (nota: il “collaudatore frontale di chiodi” si distingue dal “collaudatore mentale di chiodi” per la superficie che espone alla punta metallica in oggetto).
Ed ecco Victor che entrò nel locale, si aggiustò la cintura con aria da duro, si tolse un chiodo dalla fronte perché arrivava bello fresco dal lavoro e ordinò un chinotto on the rocks. Poi raggiunse il pianista e sussurrò “Suonala ancora Sam”.
“2-0, doppietta di Balotelli”, rispose Sam, che a forza di schivare pallottole s’era fatto un po’ più sgamato nella risposta secca. Nel bar la tensione si tagliava col coltello, il formaggio anche, mentre per la cocaina si continuava a preferire la lametta. Elsa presentò i due uomini. Ci fu fin da subito grande simpatia: Rick prese una bottiglia di whisky e la spaccò in testa a Lazlo, che non la sentì neppure. Non per scortesia ma perché da sempre preferiva il rum. Partì una rissa furibonda che coinvolse tutta la clientela: scaricatori di porto livornesi si picchiarono con boscaioli tirolesi, metalmeccanici baresi si azzuffarono con geometri londinesi. Victor menò otto contadini di Alessandria venuti su a zappa e bagna cauda, Rick le diede di santa ragione a un elettricista, riducendolo a una poltiglia sanguinolenta spiattellata per terra. Poi lo guardò meglio e si accorse che era Papini, un vecchio compagno di liceo che non vedeva da 40 anni. Così, mentre gli rimetteva su la mascella, Rick gli disse che lo aveva menato per via di quel compito di latino che non gli fece copiare in terza. Nel ributtarsi nella mischia, Rick si ripromise di prestare più attenzione alle complesse dinamiche delle alleanze da rissa.
Dopo tre ore del leggendario locale di Rick non restava più nulla, soltanto Rick e Victor erano in piedi, a fronteggiarsi maestosi su quelle macerie che sembravano evocare eventi catastrofici. Per esempio una rissa in un bar.
I due si guardarono, si studiarono, si sospettarono, poi Rick sputò un canino, agitò il pugno chiuso con aria minacciosa, sibilò “bim…bum…bam!” e mise giù ‘carta’. Ma Victor era scafato e sganciò ‘forbici’. Rick pareggiò incartando il sasso di Victor, ma quello allungò spaccandogli le forbici. La partita si fece tesa, alcuni cuori palpitarono e altri cessarono di farlo, perché i medici delle ambulanze si misero a scommettere abbandonando i defibrillatori. Sam creò un po’ d’atmosfera suonando la Nona di Beethoven, Elsa lo accompagnò suonando la nonna di Mozart, che nonostante l’età aveva la pelle ancora elastica e un pancino che sembra un tamburo. Si arrivò così al 4 pari, ma Victor non ci stava a giocarsi la sua amata con un gioco così imbecille e tirò fuori una sorpresa dal baule: una pistola Luger P.08!
“Ohhhh”, disse il pubblico.
“Ora che fai stronzetto…”, provocò Victor, “me la spacchi col tuo sassolino?”.
Ma Rick non si scompose, pure lui aveva una sorpresina nascosta dentro una cassapanca: un bazooka Beretta da 50 chili caricato con un missile termonucleare giapponese a propulsione fotonica da 6.000 megatroni.
“Ah”, disse il pubblico.
“Me lo incarti?”, bulloneggiò Rick.
“Minchia!”, ammise Victor.
Fu la mossa vincente, Victor ripose la pistola nel baule, strinse la mano al suo rivale e disse: “Hai vinto Rick, Elsa è tua”.
“Manco per il cazzo”, disse Rick, leccando voluttuoso il bazooka.
“Pardon?”, chiese Victor nella sorpresa generale.
“Mica crederai che mi tenga il pachiderma? E’ qui da solo tre ore e si è già triturata venti chili di noccioline”, sentenziò Rick, con l’occhio pratico del buon amministratore di bar.
“Non è vero!!”, gridò Elsa, sputacchiando noccioline in faccia alla nonna di Mozart. Poi si inginocchiò davanti a Rick, si mise a piangere, si strappò i capelli e, gridando che il loro amore non poteva essere finito, accennò un’apertura di patta.
“L’amore forse no ma le noccioline sì”, fece notare piccato Rick smanacciando la sfrontata, “poi scusa…già eri un cesso, se ti strappi anche i capelli non ti si può più guardare”.
Ma Sam aveva ancora quello che i bravi definisco “timing” e riattaccò le note di pianoforte della loro canzone. Mentre tutti pendevano dalle labbra degli antichi amanti –a parte quelli che andarono a picchiare Sam- un sentore di tenerezza lievitò sulle macerie polverose del bar che fu. Era il ricordo dei dolci baci sulla Senna, delle affettuose carezze al Pere Lachaise, delle passeggiate mano nella mano a Saint Germain…dei borseggiamenti fatti insieme al Louvre. Fu di nuovo passione. Elsa si gettò tra le braccia di Rick e lo fagocitò in un abbraccio infinito, lungo come il tempo bastardo che troppo a lungo li divise. Rick vi scomparve dentro.
Passò un minuto, ne passarono due, ne passarono tre…poi qualcuno fece notare a Elsa che le braccia di Rick, che spuntavano dal suo corpaccione immenso, si agitavano in maniera convulsa, come fossero le membra disperate di un uomo che affoga più che i lussuriosi tentacoli di una piovra avida d’amore. Ma Elsa non ascoltava le chiacchiere da bar e così continuò a stringere al prodigioso petto il povero Rick. Le braccia smisero presto di agitarsi…era, a tutti gli effetti, un amore che toglieva il respiro.
Finiì così la storia del leggendario Rick Blaine, ex alcolista amareggiato, ex re del mercato nero, ex proprietario del mitico Rick’s Bar, protagonista inesauribile di una delle più struggenti, dolci e travolgenti esplosioni di passione di tutti i tempi. E mentre esalava l’ultimo respiro, e una lacrima luccicante gli solcava il viso, Rick ritardò un epilogo e sussurrò l’ultimo desiderio all’amore della sua vita.
“Suonala ancora…Sam”
La scrofa svenne per il dolore mentre Sam, pure lui malconcio per le botte prese, alzò un sopracciglio e biascicò ciò che aveva nel cuore al compagno segreto della sua vita: “2-0 per il Milan, cretino. L’hai pure vista…”.
Poi toccò un’ultima nota, e non suonò mai più.
Buio.