martedì 29 aprile 2014

Dialogo della ragione e della divisa. In morte di Federico



Di fronte ad eventi come l’applauso agli assassini di Aldrovandi da parte del Sap, il Sindacato Autonomo di Polizia, io non mi accontento di condannare.
Io voglio di più.
Voglio capire.
Perché se non ci prendiamo un tempo per far sedimentare la rabbia e lasciare che su di essa prevalga la quiete della ragione, noi non siamo uomini.
Siamo bestie.
Così sono andato da uno di quei poliziotti che applaudivano, un collega dei quattro condannati, e gli ho parlato. La sua divisa mi faceva un po’ paura, e pure quella pistola nascosta, simbolo di potere ed eterno strumento di lotta tra il bene e il male. Ma mi sono fatto coraggio, perché volevo concedergli il diritto di spiegarsi, quel diritto sacrosanto da cui nessuno di noi può essere escluso.
Volevo credere che non fosse tutto così brutto e senza speranza.
Volevo che ci fosse una giustizia.
Così gli ho messo una mano sulla spalla, squadrata e possente sotto la divisa, e gli ho detto: “Io non ti giudico, non ancora. Tu sei tu, io sono io. Tu sei un uomo, io sono un uomo. Siamo uguali davanti al destino e io chiedo a te di raccontarmi chi sei e quali sono i motivi di quell’applauso. Mettiamo da parte le passioni, dimentichiamo rancori che non ci appartengono e lasciamo che sia solo la nostra intelligenza a parlare”.
Lui, uomo tra gli uomini, divisa tra le divise, mi ha guardato dritto negli occhi e ha risposto con tutta la forza del suo pensiero.
“Nghh gneee bllfff nguu bafanàààà!”
A posto amico.
Ho capito perfettamente.
Ho capito tutto.